L’Armida che parlava con le api

..Le api le aveva imparate dalla nonna. Non è che fossero una cosa molto diffusa là da noi, ce ne stavano poche.

Lei aveva quest’arnia di legno lasciata dalla nonna a cui lei ogni tanto sostituiva qualche tavola. Sembrava proprio una casettina con tanto di tetto. Dentro c’erano gli alveari e lei la spostava di qui e di là- oggi su un campo o una contrada, domani da un’altra parte – in cerca del posto migliore, dove ci fossero più fiori a cui suggere il polline. Ma non è, ripeto, che lassù ci fosse questa grande quantità di pollini pregiati. Solo pioppi, qualche olmo e giusto un’acacia ogni tanto. Lì si che il miele veniva buono – sull’acacia – ma ce n’erano talmente poche: solo campi di grano, fieno, granturco e barbabietole. Ma anche il fieno – l’erba medica – non arrivava mai a fioritura che c’è il massimo di polline, veniva falciato prima e lasciato poi seccare al sole. Cosa vuole che raccogliessero le api?

Per questo ce n’erano poche – c’era solo lei – e lei le spostava di quà e di là. La gente a dir la verità comprava di corsa il suo miele – e il prete la cera – anche quando non c’erano proprio soldi, perchè un pò ce ne voleva per forza in casa e non tanto come dolcificante, ma per quel pò di salute dei figli. Era l’unica medicina in giro e andava bene sia per la tosse che alle puerpere e se non c’erano soldi si faceva a baratto, ma sempre con il contraccambio più conveniente a lei; era capace di chiederti un vitello per un vasetto solo di miele. Quasi sempre però, tutta questa gente che veniva a fare la fila, poi non era per niente contenta quando lei piazzava l’arnia sulla terra loro. Tentavano tutti di scacciarla: “Agò paura; tienle lontàn da mì ste appi”. Lei allora faceva finta di levarla, ma per riposizionarla appena lì di fianco, sulla strada – “Xè tua anca la strada?” – o sull’argine d’un canale, continuando a borbottare per conto suo con le api, mentre la gente si faceva il segno della croce. La vedevano nera nera – o meglio, nera e gialla – con tutte queste api sulla pelle assiepate l’una sull’altra che le camminavano sulle mani, le braccia, il collo, il viso, tutta piena fin dentro la bocca ed il solco dei seni. E loro si facevano la croce – “Stròlega!” – convinti che quella parlasse davvero con le api. Ora come lei sa questa cosa non è possibile. Non sta nè in cielo nè in terra. È esclusa da tutta la scienza. Gli uomini possono parlare e possono pure capirsi con certi animali. Ma debbono essere animali grossi, un pò più vicini a noi nella catena dell’evoluzione. Si figuri quindi se per noi era una novità che qualcuno parlasse con gli animali – non avevamo fatto altro in vita nostra si può dire – ma con animali grossi però, che abbiano un cervello grande; non con gli insetti, abbia pazienza: ma che anche adesso s’è mai sentito di qualcuno che parli con gli insetti? E invece no. Quella parlava con le api e non è che ci parlasse solo solo per sfogarsi o fare finta…no, quella era convinta non solo che le api la capissero ma a modo loro le rispondessero pure, facendo con lei i ragionamenti. Diceva di capirle dai versi del ronzio e soprattutto dal modo di volare quando erano più di una, in sciame. E quella volta appena arrivata al ponte sul Po di Volano – dove qualche sera prima, sotto un’arcata, aveva piazzato l’arnia – subito ha detto loro felice e contenta: “Attenzione che arriva una persona. Stì bone”. Ma poi, non riuscendo a contenersi, gli ha strillato dalla contentezza: “Agò trovà il moroso, appì!”. Ora non è che loro non lo sapessero, o che lei non sapesse che loro lo sapevano già. Glielo avevano detto la mattina, era lei che non ci aveva voluto credere. O che non lo aveva capito. Già la sera prima aveva nettamente sentito gli inizi del canto d’amore dell’ape regina, che man mano s’era fatto sempre più netto e stringente: “Gnièèèè, gniè gniè gnèut… frrrwt frrrwt…Gnièèèè, gniè giè gnèut…frrrwt frrrwt”. Era rimasta quasi tutta la notte lì vicino ad ascoltare e imaginava i fuchi che a ogni nuovo “Gnièèèè, gniè gniè gnèut” fremevano dentro l’alveare. In fin dei conti erano venuti al mondo per questo, non è che avessero qualcos’altro da fare. Non avevano mai lavorato in vita loro, come si suole dire, ed erano sempre e solo state le api femmine a mantenerli a panza all’aria e miele a sbafo fino a questo giorno. Questa era la gara della loro vita: Hic Rhodus, hic salta. I cento metri più importanti – l’Olimpiade – e tutti lì a fremere che finisca sta solfa, che s’oda l’ultimo gnièèèut, spari lo starter e s’aprano le gabbie. E allora finalmente fuori a correrle dietro, a giocarsi la pelle per salvari l’anima, il senso della propria vita, le proprie generazioni. Chissà quanti – pensava l’Armida – erano già morti nella notte dentro l’alveare, per il solo fremere dopo quei frrrwt, carichi d’orgasmo fino a spaccarsi il cuore. Poi a giorno lo sciame era uscito. Lei fuori – l’ape regina – e loro, i mille e mille fuchi, dietro. Ma prima di virare verso l’alto, verso il sole, lo sciame aveva fatto due strani giri attorno a lei, giri che Armida prese come cattivo segno, e si sentì colta da malinconia per i fuchi che non sarebbero ritornati. L’ape regina volava sempre più in alto, mentre lo sciame dietro sempre più s’assottigliava. Lei è più forte di loro, perchè mangia solo pappa reale. Ai fuchi invece miele di scarto. Ma nessuno recede o torna indietro – anzi, quei pochi che lo fanno trovano l’alveare chiuso, sbarrato dalle api custodi e loro restano lì fuori per qualche giorno, finchè muoiono di fame – e man mano nell’ascesa e nella corsa, a uno a uno ai fuchi gli scoppia il cuore: arrivederci e grazie, pregate per me. Solo i più forti arrivano in alto e a loro finalmente – gli ultimi sei o sette, ambito premio a fatal cruenta corsa – l’ape regina concede, alta nel sole, di poter scaricare fin l’ultima stilla di vita, fino l’ultimo gene nel suo ventre sacro. Ciò fatto, l’apparato copulatore del maschio si strappa – serviva solo a quello – e addio fuco. Ma le sue generazioni sono vice per sempre, perchè ciò che conta è l’alveare – la collettività – non l’individuo ed anche l’ape guerriera ha un pungiglione solo, e quando inietta il veleno le si strappa e muore. Ma se qualcuno solo si profila a minacciare l’alveare, lei non ha titubanze e parte per la sua missione, poichè è lì che si sublima il pieno senso del suo stare al mondo: “Dulce et decorum est pro patria mori”. La regina quindi accoglie tutto il seme dei fuchi in una sacca – tutti i loro semi, centinaia di migliaia e anche milioni di gameti – e poi nel corso della sua vita, che è in media di cinque anni, man mano che servono api nell’alveare feconda di volta in volta le sue uova con i gameti conservati nella sacca. Alla bisogna. Non tutti in una volta sola […] E alla fine di quel volo nuziale – quella mattina – l’ape regina carica dei suoi milioni di gameti non se ne era tornata, secondo consuetudine, tranquilla all’alveare. Certo tanto tranquilla un’ape regina non torna mai dal suo volo nuziale. E quando vuole che le capiti un’altra giornata così? È il giorno della vita anche per le ragazze del mio paese – o almeno era una volta- che ci spendono un sacco di soldi per l’abito da sposa, il pranzo, gli invitati, i mobili nuovi, il servizio fotografico e adesso pure il filmino e dvd. Figurarsi le api, che le ragazze del mio paese si sposeranno pure una volta sola – adesso un pò di più – ma poi, volendo, fanno anche tutte le sere. L’ape regins invece fa quella volta sola e basta, poverina. Permette che quando torni all’alveare si senta un pò scomposta- diciamo- un pò su di giri? E quando le ricapita più? Per questo tutte le api regine quando tornano a casa dal volo nuziale sembrano un pò fatte o ubriache. Sbandano di qua e di là: Motivo per cui l’Armida non s’era preoccupata vedendo da lontano sbandare anche la sua. Quella però – invece di prendere bene la mira all’alveare o chiamare almeno in aiuto le compagne – s’era messa a girararle attorno alla testa come una matta e ronzava e vibrava e pareva che dicesse: “Anca tì, anca tì”. L’Armida la scacciava con la mano:”Stà in là , maiala, non star tocàrme”. Ma quella invece insisteva con giri sempre più stretti, sgusciava e le ronzava sempre più attorno all’orecchio sinistro:”Zzzz…zzz…anca tì…anca tì…zzzz, zzzz, anca tì, anca tì”, “Bruta spòrca de na sporcassa maialassa”, s’era allora arrabbiata l’Armida, “te gò dito o no de lasiarme stare?” E allora quella aveva detto: “Ma va’ in malora, va’” e se n’era tornata imbronciata all’alveare, continuando a borbottare tra sé e sé uno stranissimo “Zzzz” che-volendo-si sarebbe potuto benissimo interpretare come una specie di:”Anca tì, anca tì, testa de casso”. Comunque io adesso non lo so se davvero quell’ape dicesse così, come non so cosa pensino in generale le api. Bisognerebbe solo farsi api per saperlo. Però lo sapeva l’Armida. O almeno credeva di saperlo – e come nel pomeriggio – quando il vicino che l’aveva sempre tenuta in braccio da bambina aveva detto “Briscola” all’osteria e poi s’era reclinato ad esalare l’anima sul tavolo – lei aveva finalmente capito che i primi tristi giri dello sciame erano stati per lui, così a tarda sera, dentro il ripostiglio della cucina dei vicini quando il suo grembo s’era aperto a ricevere il fiume vitale di Pericle, lei s’era finalmente resa conto all’improvviso che il ritorno gioioso della regina intorno al suo viso, “Anca tì, anca tì”, era stato per lei. Proprio quando lei – come doveva evidentemente avere detto anche la regina al fuco – diceva al fiume di Pericle: “Oggi ho concepito dentro di me come le mie api tutti i tuoi figli, che conserverò gelosamente e quando sarà l’ora metterò, come le mie api, uno per uno al mondo”.

tratto da Canale Mussolini di Antonio Pennacchi, Mondadori 2010

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